mercoledì 15 maggio 2013

Il siciliano, i siciliani


di Chiara Bonfiglio, siciliana, laureata in Lettere Classiche, innamorata della lingua italiana.

Per un siciliano si sa, descrivere la Sicilia è sempre difficile: cogliere la complessità della nostra terra, analizzarla o anche solo spiegare perché la si ami (o la si odi, il più delle volte entrambe) non è compito semplice. 

Altrettanto si potrebbe dire del nostro dialetto. Già dalla definizione si potrebbe obiettare: lingua o dialetto? A seguire i vocabolari né l'uno ne l'altra, la nostra “parlata” non è solamente orale, ma ha una sua letteratura, che si sviluppa di pari passo a quella cosiddetta italiana, che con quest'ultima si interseca senza che si possa poi distinguerla. È di certo un momento imprescindibile per la storia letteraria siciliana e altrettanto per quella italiana, la grande fucina culturale che fu la corte di Federico II di Svevia, intorno al 1200, con poeti del calibro di Jacopo da Lentini. Passa poi per Verga, Pirandello, Martoglio, Buttitta, e mi piace anche ricordare a poco più di un anno dalla sua scomparsa Vincenzo Consolo, scrittore santagatese che  ha saputo mescolare le tante voci della nostra lingua.

Parlare di mescolanza in riferimento al siciliano è inevitabile. Nei secoli la nostra isola ha visto alternarsi dominazioni diverse, con lingue e culture diverse: e se è vero che ognuna di queste dominazioni abbia sottratto qualcosa (in certi casi anche rubato, impoverito e vessato), è vero anche che qualcosa ha lasciato. Per questo nel nostro dialetto ci si può trovare di tutto: un sostrato indeuropeo e poi voci greche, latine, spagnole, arabe, francesi etc.  La maggior parte di questi termini non crea più sospetti, sono perfettamente integrati nella musicalità cui siamo abituati. Sono greci termini come cuddura, carusu, rasta; sono arabi maidda, taliari; sono normanni autru, raggia. Non più elementi estranei, ma termini che fanno parte della nostra quotidianità, che abbiamo accettato e abbiamo fatto nostri. Una delle caratteristiche del popolo siciliano è proprio questa: la capacità di accettare il diverso e di inglobarlo. È un elemento culturale che parte da lontano, che abbiamo ereditato dai greci ancor prima che dai romani, dal loro modo di concepire l'ospitalità.

Non ho mai amato le metafore, ritengo che ogni cosa sia sempre e solo uguale a se stessa, ma in questo caso ne userò una: il dialetto siciliano è la popolazione siciliana, ne ripropone la complessità, le mille sfaccettature, il convivere di elementi apparentemente inconciliabili come l'onestà di uomini capaci di morire per la giustizia e la mafia, che della giustizia è il contrario. Una traccia evidente di questa  convivenza di elementi diversi rimane nella nostra religiosità, che spesso mischia elementi pagani a quelli religiosi. Basta citare il caso più macroscopico della cosiddetta festa dei Giudei di San Fratello: una festa che più che elementi propriamente pagani manifesta elementi “stranieri”, estranei alla religione cattolica ma pur sempre espressione di devozione e religiosità. Tanto più interessante notare che si svolge in una comunità che ha un suo proprio dialetto gallo-siculo, che per altri siciliani risulta quasi del tutto incomprensibile.

Il dialetto non è “parlata rozza”, il dialetto qualifica un gruppo di persone, dà loro una storia comune e una cultura comune. Ritorno su questa parola, la cultura, perché anche se impopolare in questo particolare momento storico, qualcosa mi spinge ancora a credere che ci salverà. Mia nonna mi diceva spesso “i libbra su l'occhi du cristianu”. Di certo lei apparteneva ad un mondo diverso, in un mondo in cui se non sapevi leggere e far di conto dovevi sempre dipendere da qualcuno, e non raramente da persone poco oneste. Ma il proverbio, come tanti altri, è ancora valido: senza cultura si è davvero ciechi.

In questo 15 maggio festa dell'Autonomia Siciliana non so se mi sento di festeggiare l'Autonomia, ma di certo dobbiamo festeggiare la sicilianità: l'insieme di storia, letteratura, cultura popolare che ci rendere il meraviglioso popolo che siamo.


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