di Chiara Bonfiglio, siciliana, laureata in Lettere Classiche, innamorata della lingua italiana.
Per un siciliano si sa, descrivere la
Sicilia è sempre difficile: cogliere la complessità della nostra terra,
analizzarla o anche solo spiegare perché la si ami (o la si odi, il più delle
volte entrambe) non è compito semplice.
Altrettanto si potrebbe dire del
nostro dialetto. Già dalla definizione si potrebbe obiettare: lingua o
dialetto? A seguire i vocabolari né l'uno ne l'altra, la nostra “parlata” non è
solamente orale, ma ha una sua letteratura, che si sviluppa di pari passo a
quella cosiddetta italiana, che con quest'ultima si interseca senza che si
possa poi distinguerla. È di certo un momento imprescindibile per la storia
letteraria siciliana e altrettanto per quella italiana, la grande fucina
culturale che fu la corte di Federico II di Svevia, intorno al 1200, con poeti
del calibro di Jacopo da Lentini. Passa poi per Verga, Pirandello, Martoglio,
Buttitta, e mi piace anche ricordare a poco più di un anno dalla sua scomparsa
Vincenzo Consolo, scrittore santagatese che
ha saputo mescolare le tante voci della nostra lingua.
Parlare di mescolanza in riferimento
al siciliano è inevitabile. Nei secoli la nostra isola ha visto alternarsi
dominazioni diverse, con lingue e culture diverse: e se è vero che ognuna di
queste dominazioni abbia sottratto qualcosa (in certi casi anche rubato,
impoverito e vessato), è vero anche che qualcosa ha lasciato. Per questo nel
nostro dialetto ci si può trovare di tutto: un sostrato indeuropeo e poi voci
greche, latine, spagnole, arabe, francesi etc.
La maggior parte di questi termini non crea più sospetti, sono
perfettamente integrati nella musicalità cui siamo abituati. Sono greci termini
come cuddura, carusu, rasta; sono arabi maidda, taliari; sono
normanni autru, raggia. Non più elementi estranei, ma termini che fanno
parte della nostra quotidianità, che abbiamo accettato e abbiamo fatto nostri.
Una delle caratteristiche del popolo siciliano è proprio questa: la capacità di
accettare il diverso e di inglobarlo. È un elemento culturale che parte da
lontano, che abbiamo ereditato dai greci ancor prima che dai romani, dal loro
modo di concepire l'ospitalità.
Non ho mai amato le metafore, ritengo
che ogni cosa sia sempre e solo uguale a se stessa, ma in questo caso ne userò
una: il dialetto siciliano è la popolazione siciliana, ne ripropone la
complessità, le mille sfaccettature, il convivere di elementi apparentemente
inconciliabili come l'onestà di uomini capaci di morire per la giustizia e la
mafia, che della giustizia è il contrario. Una traccia evidente di questa convivenza di elementi diversi rimane nella
nostra religiosità, che spesso mischia elementi pagani a quelli religiosi.
Basta citare il caso più macroscopico della cosiddetta festa dei Giudei di San
Fratello: una festa che più che elementi propriamente pagani manifesta elementi
“stranieri”, estranei alla religione cattolica ma pur sempre espressione di
devozione e religiosità. Tanto più interessante notare che si svolge in una
comunità che ha un suo proprio dialetto gallo-siculo, che per altri siciliani
risulta quasi del tutto incomprensibile.
Il dialetto non è “parlata rozza”, il
dialetto qualifica un gruppo di persone, dà loro una storia comune e una
cultura comune. Ritorno su questa parola, la cultura, perché anche se
impopolare in questo particolare momento storico, qualcosa mi spinge ancora a
credere che ci salverà. Mia nonna mi diceva spesso “i libbra su l'occhi du
cristianu”. Di certo lei apparteneva ad un mondo diverso, in un mondo in cui se
non sapevi leggere e far di conto dovevi sempre dipendere da qualcuno, e non
raramente da persone poco oneste. Ma il proverbio, come tanti altri, è ancora
valido: senza cultura si è davvero ciechi.
In questo 15 maggio festa
dell'Autonomia Siciliana non so se mi sento di festeggiare l'Autonomia, ma di
certo dobbiamo festeggiare la sicilianità: l'insieme di storia, letteratura,
cultura popolare che ci rendere il meraviglioso popolo che siamo.
Nessun commento:
Posta un commento